Dite le ombre | Doppio zero

2021-12-18 03:32:01 By : Ms. Maria Xu

La prima antologia italiana di Nicola Samorì, artista ravennate dal percorso consolidato - anzi si direbbe coagulato, vista la densità della sua produzione - è ospitata nella cornice rinascimentale di Palazzo Fava a Bologna, custode del ciclo di affreschi dai giovani Carracci e di un patrimonio di opere impegnative, con le quali l'artista ha scelto di misurarsi. L'intero percorso è articolato in modo da costruire un dialogo serrato con le opere della collezione, che Samorì ha studiato minuziosamente, fino ad appropriarsene. Il risultato è una regia complessa, a tratti sontuosa, che riesce a sedurre anche lo spettatore che non possiede i codici dell'arte contemporanea grazie al carattere conturbante delle opere, capaci di meditare l'osservatore, offrendo uno spettacolo dove bellezza e orrore trovano un'unità archetipica. 

Raccogliendo opere nell'arco di diciassette anni, la mostra curata da Alberto Zanchetta e Chiara Stefani segue un criterio non cronologico, nel rispetto della visione dell'artista che rifiuta ogni concezione di progresso in relazione alla propria ricerca personale. "Non ci sono veri miglioramenti ma vicoli ciechi e picchi, momenti acuti e momenti deboli" dichiara Samorì, e questo riguarda sia la sua vita individuale che la storia dell'arte tout court. La dimensione della rielaborazione ininterrotta dei temi è evidente nella panoramica offerta dalla mostra, così come il tarlo che lo perseguita. Osservando la "forma instabile" delle opere si ha le vertigini: nato con il disegno e l'incisione, Samorì passa dalla scultura alla pittura e si muove avanti e indietro nel tempo, depredando il patrimonio visivo occidentale, animato da una passione rapace che si traduce in furore, attraverso il quale l'immagine trova il suo compimento e poi viene violata con gesti imprevedibili per superare i suoi limiti formali, completando quel salto nel vuoto inaugurato da Lucio Fontana con tagli e perforazioni e rendendo il portato alla pittura gestuale delle avanguardie, comunque filtrato da automatismi e ingegno. C'è un continuo sconfinamento tra scultura e pittura, tanto che le immagini acquistano un corpo, un corpo, però, senza riposo e di cui si prevede la fine imminente. L'artista, quasi a voler esorcizzare la morte, si fa carico di immolare le sue immagini, non prima di averle spinte al limite in un'operazione di spietato sverniciamento e verifica.

Nicola Samorì, Lucia, 2019, olio su onice e pietra di Trani, 40 x 30 cm © Monitor, Roma / Lisbona / Pereto © Galerie EIGEN + ART, Lipsia / Berlino. Foto Rolando Paolo Guerzoni.

L'arte di Samorì è esigente, così come il suo creatore. Il linguaggio delle immagini non è quello della letteratura, ci sono cose che la scrittura dell'arte azzardata tenta di nominare; l'indicibile è una caratteristica del visivo e tra ciò che non può essere enunciato e il visibile si svolge il movimento del pensiero, quell'esercizio di interpretazione e traduzione gioiosamente destinato a fallire e, tuttavia, a essere fecondo. Samorì si assume questo rischio in prima persona e riesce ad entrare nel suo lavoro anche con la parola, analizzando i processi del suo lavoro con la stessa chiarezza chirurgica con cui si avvicina al soggetto, padroneggiandolo, e questo è evidente sia nelle rare testimonianze audiovisivi come nella più consistente documentazione di interviste e conversazioni.

La scelta delle oltre ottanta opere in mostra ripristina completamente il percorso dell'artista, sempre rivolto al passato come l'angelo di Benjamin, ed è accuratamente documentato dal catalogo della mostra, strumento indispensabile per cogliere i percorsi, i riferimenti e le stratificazioni della sua macchina visiva. 

Tra piccole opere come i dipinti su pietra, e opere monumentali come il trittico Double Page (di Rane e Fiori, 2016), la raccolta di tecniche esplorate è caratterizzata dall'originalità e dal recupero di pratiche sostanzialmente dimenticate, riscoperte e poi declinate secondo ad una sintassi del tutto personale. Esemplare in tal senso è la saletta dedicata a Francesco Albani, dove trovano spazio le vanitas: c'è Untitled (2015), immagine di gravidanza che riprende un originale del '600, in cui il bulino traccia una doppia trama su la superficie del tessuto, operando attraverso un segno primario e un segno fantasma, operazione sperimentata anche negli altri capitoli della mostra, mentre in Natural History (Blessing, 2013) una collezione di falene viene ricoperta di pittura ad olio nera, poi staccata e fatta cadere restituendo tutta la caducità che l'immagine della farfalla può evocare. Qui è possibile individuare uno dei nuclei tematici su cui l'artista ha indagato con maggiore insistenza, ovvero l'idea della carne e del tropo che ne deriva. Non è un caso che una delle figure di riferimento nell'iconografia di Samorì sia Marsia, lo scorticato, che si rivela in numerose tele e tavole durante la mostra.

Sempre nella sala è presente una scultura che funge da indicatore di alcune traiettorie seguite da Samorì nella sua carriera. Si tratta di Guglia (2016), una “forma furiosa” di marmo che nasce dall'osservazione di un cavolo romano essiccato e si arrampica su un teschio, progettata per il Teatro Anatomico di Padova; la figura è realizzata in marmo bianco di Carrara, materiale puro che permette di evidenziare l'imperfezione e che attesta l'infestazione - avvenuta durante i diciassette anni in esame - avvenuta ad opera dell'arte barocca. La sala rappresenta un piccolo compendio della varietà dei materiali e delle soluzioni formali adottate, che vanno dal monotipo all'intaglio, dalla scultura su legno e marmo all'incisione, dalla pittura su rame, pietra, ottone, onice all'affresco, tecnica riscoperta grazie alla pratica dello "strappo" e nella quale si inserisce anche il restauro, non come atto terapeutico ma come parte dell'opera stessa nel suo farsi. Emil Cioran ha scritto che si abita un linguaggio, non un paese, e Samorì abita il linguaggio della pittura e della scultura come pochi altri, è anacronistico e proiettato oltre, forse proprio perché ostinato in una lotta - in un processo, per citarlo - diacronico, è libero di interpretare il clima del suo tempo senza esserne schiavo. 

Nicola Samorì, Guglia, 2016, marmo bianco puro di Carrara, frammento lunare, 90 x 30 x 30 cm © Monitor, Roma / Lisbona / Pereto © Galerie EIGEN + ART, Lipsia / Berlino. Foto Rolando Paolo Guerzoni.

Nella modernità è stata minata la sacralità del magistero delle immagini: Samorì si appropria del canone dell'arte, lo possiede e ne fa la sostanza della propria pratica, assumendo su di sé il ruolo di imaginifragus: come scrive Federico Ferrari, è un mistico della materia e attraverso una pittura che è rivelazione gnostica diventa veicolo di grazia, portatrice di luce. La pars destruens si alterna alla pars costruzioni e la profonda conoscenza della disciplina pittorica e della scultura gli garantiscono una totale libertà di azione. Invece di genuflettersi alla tradizione, Samorì la demolisce, ad esempio nel tradire i ricettari: la sua pittura mimetica non rispetta le formule accademiche, arriva al risultato formale a modo suo, "di errore in errore", e in opere come in Canto della carogna (2020) la brillantezza della tavolozza di Giuseppe Maria Crespi, autore di un mistero coloristico che lo stesso Samorì definisce impenetrabile, si ottiene attraverso una formula di sua invenzione. 

Se il sogno della carne pittorica lega Samorì a Crespi, l'incubo della cecità lo avvicina ad un altro dei suoi mentori, ovvero José de Ribera detto Lo Spagnoletto. L'artista seicentesco ha infatti concluso la sua vita nel buio della cecità, terrore che Samorì dichiara apertamente e che cerca di esorcizzare attraverso i feroci interventi sulle figure: la Sofonisba (2018) dai cui occhi chiusi si dipartono due sottilissimi fili spento; Abbagliata (2017), esercizio pittorico sul marmo nero del Belgio tradotto in puri valori plastici; Lucia (2019), dipinti su onice, i cui bulbi oculari sono in realtà dei geodi come nel caso dell'omonima testa del 2020 in marmo bianco di Carrara e onice, o quelli di Clessidra (2020) forati con un trapano in modo che la sottile polvere di marmo rosa portoghese potrebbe cadere e lasciare tracce sul dipinto.

La galleria di figure orbitanti si estende per tutto il primo piano, con variazioni sorprendenti come About Africans - (gli occhi nel petto) del 2013, quasi una presenza aliena, Dolorosas (2015) o JRSR (Simonia, 2009). In quest'ultima opera cecità e gravità danzano insieme, la materia crolla sotto il peso della forza che ancora alla terra e trascina dietro la superficie del dipinto, le forme, la luce: "La cecità mina l'unione primordiale tra desiderio e immagine" Scrive John M. Hull in A Dark Gift, il diario di un uomo che diventa progressivamente cieco.La pulsione scopica è una pulsione cognitiva ma anche erotica, ed è un desiderio vitale che scaturisce dall'opera di Samorì, spesso fraintesa e quindi accusato di iconoclastia. Andando oltre le consuete letture "sinistre - terrificanti", Sfregi testimonia sulle sue tele il segno di un desiderio ardente, una passione che rivela la natura autofaga della pittura, questa cosa "impossibile", come dichiarato dallo stesso artista , che porta in sé il riflesso della realtà e che ne è sintomo.

Se le immagini non possono che restituirci una visione della realtà frammentata - nessuna immagine può contenere in sé tutta la Verità, né condensare in sé la totalità della realtà - Samorì fatica a far sì che le sue opere siano però prive di frammentazione interna. Nelle tele, nei disegni e nelle sculture non c'è deriva o elemento aggiuntivo, tutto è organico alla forma come nella scultura che apre il percorso espositivo, On the Tentacle (2016), la nuda di un Cristo gotico scolpito in un legno di noce antico intorno a una fessura naturale. Samorì rifiuta il superfluo, è moralista del gesto. L'economia di azioni che determina ogni singola opera riflette una postura precisa, un carattere "abissale" che ne fa un autore del tutto singolare nel panorama contemporaneo, capace di leggerne i movimenti con lucidità critica e al tempo stesso di essere pienamente e completamente immerso la pratica. 

Nicola Samorì, Last Blood, 2019, olio su onice, 40 x 30 cm © Monitor, Roma / Lisbona / Pereto © Galerie EIGEN + ART, Lipsia / Berlino. Foto Rolando Paolo Guerzoni.

Dal punto di vista di un rapporto elettivo con la materia, si intendono anche le pitture lapidee dove l'immagine è ricercata, lasciata emergere come apofenia e poi sviluppata, a partire proprio da un segno preesistente, una "carie": essa è il caso di Cunea, 2020/21, in cui il naso mozzato mostra in realtà la forma originariamente erosa della pietra, assenza attorno alla quale è stata concepita l'intera testa; In abyss (2018-2019) testa mutilata in travertino che ricorda sia antichi ritratti che atroci fotografie di soldati di ritorno dalla Prima Guerra Mondiale; Ultimo Sangue, esercizio cristologico che germoglia intorno alla cavità del costato, balzo concettuale folgorante che presuppone che la ferita esista prima del corpo, una verità prima dell'esistenza di Cristo stesso. La massa dell'esistenza allora poggia sul nulla, così come la massa del pigmento crolla sotto il peso della gravità e torna sempre a lasciare spazio al vuoto, e quando ciò non avviene per naturale consumo, la mano dell'artista arriva ad infuriarsi, aprendo uno squarcio nel caos.

La dialettica tra il desiderio di dominare lo spazio attraverso la forma e l'arroganza del caos sembra irrisolvibile e si esprime in una tensione verso la figurazione e la sua conseguente sperimentazione attraverso l'irruzione dei piani, la distruzione, l'irruzione del disordine. L'ipotesi di uno spazio vuoto che si allarga e diventa dominante, inaugurata da Caravaggio, si traduce in una malattia che contagia le immagini e le corrode, come nel caso del monumentale affresco della Valle Umana. Altre volte, la curiosità è il peccato che colpisce l'artista: il desiderio di mostrare cosa si cela dietro una scultura, ovvero il lato della superficie pittorica rivolto verso la tela, quindi invisibile, dà vita a opere come Pentesilea (2018), olio su ottoni composti da frammenti di pittura gestuale poi ricomposti su lastra metallica, che ricordano quel “processo di disarticolazione del segno” che è alla base della ricerca pittorica di Samorì (ben visibile in Labes, 2006 o nel dittico Simonia del 2007) e che è legato alle memorie dei mosaici ravennati, o anche come Caino (2020), un dipinto in cui sono visibili strati di dipinti precedenti, lasciati alla vista come ferite aperte. Il prelievo dal repertorio dell'arte del passato e l'originario intento espressivo sono però sempre governati dalla materia: lì, tra la moltitudine di figure e segni che compongono l'immenso catalogo visivo di cui l'artista si appropria e la specificità della materia viene generata un'immagine grezza.

Nicola Samorì, Caino, 2020, olio su lino, 200 x 150 cm © Monitor, Roma / Lisbona / Pereto © Galerie EIGEN + ART, Lipsia / Berlino. Collezione AmC Coppola, Vicenza. Foto Rolando Paolo Guerzoni.

Tra i vari momenti della mostra, spicca per la sua rilevanza l'installazione nella sala del piano nobile che ospita gli affreschi di Ludovico Carracci, al centro della quale Samorì colloca Il tamburino dormiente (2020), scultura in marmo Bardiglio. È un corpo contratto, come piegato dal tetano, con le sue cavità gotiche che chiamano Wildt, prodotte dalle bollicine di fermentazione dell'alginato, il composto usato dai dentisti. Avvicinandosi si coglie il lavoro di rifinitura delle superfici e la leggerezza delle sfumature cerulee della pietra che danno vita ad un corpo consumato, quasi una mummia tornata da un ghiacciaio in cui l'immagine di Cristo e Marsia si fonde e si transustanzia nel legno, in minerale. 

Studiando per mesi il complesso fregio dei Carracci e le opere del museo, l'artista si lasciava influenzare dai dettagli, dalle curiosità, dal bizzarro e con essi dialogava sottile, restituendo la sensazione di un paesaggio visivo in cui contemporaneo e antico confluiscono in una forma sincretica ma rigorosa: nella stessa sala, dove gli affreschi sono dedicati alle storie di Enea, in corrispondenza delle porzioni danneggiate da infiltrazioni di umidità, Nubifregio (2010) opere in cui la figura di San Paolo eremita ripreso di Mattia Preti viene lavato via dal pigmento che sgorga dall'alto come una pioggia divina.

Tutt'intorno, le sei stazioni degli affreschi di Cammino cannibale (2019) ritmano la scansione spaziale, a partire dal primo strato e i successivi cinque strappi, via via integrati con soluzioni di restauro, inseguendo la progressiva scomparsa della figura, animula vagula blandula cioè rarefa fino a scomparire creando una curiosa inversione del tempo: sembra quasi che gli interventi di Samorì siano più antichi delle figure dei Carracci, così aeree e palpitanti, e che i primi abbiano assunto il peso dei secoli, invecchiando fino a consumarsi come nelle vivace ritratto di Dorian Gray. 

Nella Sala delle Grottesche trova invece spazio l'affresco Valle Umana (Malafonte) del 2018, che con i suoi 580 x 380 cm di larghezza si inserisce perfettamente nella parete. Per un'immediata associazione mi vengono in mente i volti cancellati dall'iconoclastia calvinista dell'Altare di San Martino a Utrecht, quei volti bianchi, che non irradiano nulla, che testimoniano stagioni di violenza dimenticata. In Valle Umana i volti delle figure sono invece neri, presi da un contagio che sembra scaturire dall'oscura figura centrale, una macchia da cui nasce una malattia dilagante ma che non nega la rappresentazione. In quella macchia di Rorschach, la materia continua a sgorgare e il racconto delle fasi della realizzazione rende conto di questa maledizione: realizzata rispettando i tempi del buon affresco, l'opera subì però lo strappo in prossimità della conclusione dei lavori. Curiosamente, un fico posto dall'altra parte del muro ha danneggiato i mattoni e il muro in corrispondenza della macchia nera ha continuato a trasudare acqua durante l'esecuzione dello strappo, rendendo impossibile il distacco di quella porzione, che è stata successivamente ricostruita a secco . . 

Quel nero vivo, che mangia figure e tela, compare anche in Arco della sete (2020), o Lienzo (2014), dipinto già esposto alla Biennale 2015 che, a partire da Le Christ mort couché sur son linceul di Philippe de Champaigne ( opera del 1602, conservata al Louvre), viene realizzata su un lettino da massaggio degli anni Cinquanta e poi sottoposta ad un "trattamento" con una barra metallica che fa crollare la figura, mescolando l'iconografia in una vertiginosa sintesi della Sindone, l'ossessione per la pelle e per il pigmento che diventa superficie epidermica ei codici della pittura gestuale. 

Un altro capitolo fondamentale, infine, è la Sala Giasone, al centro della quale fu collocata, su richiesta dell'artista, la Maddalena penitente del Canova, attorno alla quale fu orchestrata una composizione di figure estatiche i cui occhi sono tutti rivolti al soffitto splendidamente decorato, completato dall' affresco Double Page (di Rane e Fiori), quasi un'opera informale per struttura e composizione.

Nicola Samorì, Immortal, 2018, olio e pennello su tavola, 41 x 31 cm © Monitor, Roma / Lisbona / Pereto. Collezione AmC Coppola, Vicenza.

Per Samorì, artista deleuziano, il conflitto dello sguardo è insanabile, e continua a rinnovarsi passando da un'immagine all'altra. Si pensa che la seduzione visiva del barocco, come una scheggia, si sia incuneata nell'occhio del pittore. Bisogna tornare indietro nel tempo per trovare un materialismo pittorico come questo, bisogna guardare le figure di riferimento dell'artista, José Ribera, i manieristi e la scuola bolognese, gli echi di Luca Giordano, Tiepolo e i maestri guardati allo sfinimento , ma anche i fiamminghi e il Seicento rispetto al quale lo sguardo non stacca più la sete, vela e drappeggia inseguendo i corpi di martiri e santi in estasi ma si spinge fino all'inesabile, allo scandalo del corpo violato, che è in definitiva il corpo della pittura, pigmento che si mostra, residuo osseo, ferita, frammento, lezione in cui si innesta anche l'eredità di Burri.

Quando Samorì descrive l'intervento del gesto come un tentativo di sferrare un colpo di grazia contro l'opera, l'indicazione che dà è quella di un sacrificio che mira a una liberazione, uccidendo come atto redentore. Da cosa vuoi liberare le tue immagini? Sarebbe fin troppo facile rispondere da un possesso, che è quello della forma cristallizzata, del classicismo. La figura dell'Immortale (2018) presenta un profondo taglio alla gola praticato con uno dei pennelli usati per dipingere il volto del santo, che rimane impalato nella tela e da cui purga una materia rosacea, l'olio mai essiccato che pulsa sotto le superfici perfette dei dipinti. "Non perdono la pittura di sopravvivere a me", dichiara l'artista, e forse non è solo una questione di tempo: il peccato è vivere - in alto, è la vita sublime dell'opera che schiaccia il suo creatore, condannandolo a ripetere un crimine a cui è costretto dalla sua stessa ossessione scopica. C'è un eccesso nel lavoro dell'artista, qualcosa che lo rende impossibile, un bisogno di verità che sembra orientare la sua pratica spingendo le immagini a dichiararsi, senza tuttavia poter mai attestare la loro verità ultima. 

"Per dire la verità bisogna raccontare le ombre", scriveva Paul Celan, e Samorì, negromante, ha scelto di raccontare le ombre, affondando gli occhi e le mani, per arrivare a rubare quel lampo di verità, quella luce nuda che per un attimo può illuminare la realtà nebulosa in cui siamo immersi. Rivelando come la cecità sia la nostra condizione naturale, da cui solo la capacità di immaginare ci redime. 

Nicola Samorì, Human Valley (Malafonte), 2018, affresco strappato, 515 x 380 cm © Galerie EIGEN + ART, Lipsia / Berlino. Foto Rolando Paolo Guerzoni.

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